15 luglio 2009
“Un nuovo diritto del lavoro: tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile”
… La Proposta di Ichino e la fine dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori
Secondo il manifesto redatto qualche mese addietro da alcuni autorevoli giuslavoristi, avente ad oggetto l’analisi della politica e del diritto del lavoro, le molteplici riforme nonché i “proclami” di riforma (rimasti per lo più sulla carta), con le loro ripetute modifiche dell’assetto normativo (discendenti dall’alternarsi al governo degli schieramenti politici opposti) e l’instabilità e l’incertezza delle regole, unita alla loro forte caratterizzazione politica, hanno, negli ultimi 10-15 anni, prodotto soltanto un’alterazione del dibattito sui temi del lavoro (concentrato sul valore simbolico che alcuni di questi hanno assunto nell’agone politico) ed un innalzamento vertiginoso del tasso di disapplicazione delle norme.
Ad avviso degli estensori del documento, l’esempio più significativo di tale deprecabile politica del lavoro “è forse quello dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori e in generale della disciplina dei licenziamenti. Qui, la semplificazione dei ragionamenti ha ridotto l’art. 18 ad un simbolo, usato da due opposti fronti politici: la reintegrazione come vessillo di coloro che vogliono tutelare i lavoratori contro coloro che si preoccupano solo dell’interesse delle imprese“.
È dunque necessario, per tale dottrina, “smettere di rincorrere futuribili riforme destinate solo ad accendere dibattiti simbolici e prive di ogni effetto reale. Ci si astenga dal proporsi di intervenire sulle strutture di fondo del diritto del lavoro, e ci si concentri invece sulle azioni concrete dirette al alzare, in ogni luogo del Paese, il tasso di effettività delle normative: combattere seriamente la precarietà, senza che la flessibilità si traduca in uno sconsiderato usa e getta della forza lavoro, potenziare i centri per l’impiego, gli ispettorati del lavoro, le azioni di contrasto all’economia irregolare e al lavoro nero, i meccanismi di formazione, di sostegno al reddito nelle imprese in crisi, di incentivo allo sviluppo“.
Fra “le futuribili riforme destinate solo ad accendere dibattiti simbolici e prive di ogni effetto reale“, rientra, con tutta probabilità, per gli autorevoli colleghi firmatari del manifesto, anche il ddl n. 1481 del 2009, recante il titolo “Disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni“, primo firmatario il Senatore e giuslavorista autorevolissimo, Pietro Ichino.
Il disegno di legge, ben sintetizzato dallo slogan “un nuovo diritto del lavoro per le nuove generazioni: tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile“, prova (non senza incertezze) a tradurre in atto le teorie di Ichino sulla dicotomia fra rigidità in uscita (rappresentata, non solo simbolicamente, dall’art. 18 st. lav.) e flessibilità (eccessiva) in entrata nel mercato del lavoro, dicotomia generatrice della precaria occupazione degli outsiders (inoccupati o lavoratori temporanei, con poche o nessuna tutela) a tutto vantaggio della stabilità degli insiders (lavoratori iperprotetti).
Secondo Ichino il dualismo del mercato del lavoro (e con esso i guasti che ha prodotto), può essere superato con una nuova tecnica legislativa che preveda “uno standard universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito, a stabilità crescente“.
Al centro del disegno di legge vi è, pertanto, proprio il superamento dell’articolo 18 St. Lavoratori attraverso la riforma della disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In particolare, il licenziamento per motivi economici-organizzativi o per esigenze del datore di lavoro, diventa “libero” mediante il pagamento di un’indennità economica in luogo della reintegra nel posto di lavoro. Resta fermo l’obbligo di preavviso che viene definito in base agli anni di anzianità: un mese per anno di anzianità di servizio, con un minimo di tre e un massimo di dodici, per tutti i collaboratori che traggano dal rapporto più di metà del proprio reddito di lavoro. Anche per il calcolo dell’indennità di licenziamento occorre tenere conto degli anni di anzianità, nonché di quanto già corrisposto a titolo di preavviso (l’indennità di licenziamento è corrispondente a tanti dodicesimi della retribuzione lorda complessiva quanti sono gli anni di anzianità, sottraendo però quanto già dovuto per il preavviso. ).
Le aziende beneficeranno, in tali casi, dell’esenzione dal controllo giudiziale sul licenziamento per ragioni economiche od organizzative, individuale o collettivo. Resterà il controllo giudiziale sul licenziamento disciplinare, così come sui possibili motivi discriminatori dello stesso.
Il lavoratore licenziato ha, inoltre, diritto a stipulare un “contratto di ricollocazione” con un’Agenzia che si occuperà del suo programma di riqualificazione e di ricollocazione. L’Agenzia può essere istituita, attraverso la stipulazione del contratto di transizione tra le aziende interessate alla sperimentazione, in qualsiasi forma (ente bilaterale o ente consortile) e non è soggetta ad alcuna autorizzazione; il suo operato viene finanziato dalle imprese stesse con un costo stimato pari allo 0,50% del monte salari relativo ai nuovi assunti. Questo onere è compensato dalla riduzione al 30% dell’aliquota contributiva a carico dell’impresa per l’assicurazione pensionistica obbligatoria per tutti i nuovi assunti. È, inoltre, previsto un sistema di bonus-malus che premia le imprese che ricorrono di meno ai licenziamenti economici.
L’accettazione, da parte del lavoratore, delle eventuali proposte di lavoro e la frequenza dei corsi di formazione organizzati dall’Agenzia, sono condizione necessaria per ricevere una speciale indennità di disoccupazione della durata massima di quattro anni (in ogni caso non superiore alla durata del rapporto), quantificata con un importo decrescente di anno in anno: si parte dal 90% dell’ultima retribuzione per il primo anno, digradante del 10% in ciascuno dei tre anni successivi.
Il sistema così previsto trova la sua fonte di successo nel buon funzionamento dei servizi, che dovranno funzionare secondo i concetti di efficienza e economicità delle imprese private; più rapida sarà la ricollocazione del lavoratore licenziato, minore sarà l’esborso a carico dell’ente per il trattamento di disoccupazione. Inoltre, il lavoratore, stipulando il contratto di ricollocazione, si assoggetta al potere direttivo e di controllo dell’ente come avviene in un rapporto di lavoro. L’ente può recedere dal contratto per giusta causa in caso di inadempimento del lavoratore; il lavoratore può recedere dal contratto in qualsiasi momento.
La proposta legislativa (derivata dal c.d. “modello danese“), deve, ovviamente essere verificata, discussa, criticata (come si è già cominciato a fare), emendata (magari proprio con il contributo degli “addetti ai lavori” che sono riuniti in Postilla) e ciò indipendentemente dalle (scarsissime) possibilità che tale disegno diventi un giorno legge, eppure, poiché essa è espressione del rigore scientifico e della volontà di provare a far evolvere ancora verso approdi migliori e migliori tutele il diritto sul quale è fondata la nostra Costituzione, deve senza dubbio essere salutata con interesse ed, eventualmente, criticata con attente e valide argomentazioni.
Guai ad astenersi dall’innovazione, dal cambiamento, dal superamento dei limiti odierni; guai a conservare sempre e comunque, anche se il punto di partenza dell’innovazione sono le (storiche) strutture di fondo del diritto del lavoro italiano.
Scritto il 15-7-2009 alle ore 11:47
Purtroppo la logica che porta alla maggiorazione delle tutele della parte debole rispetto a quella più forte provoca distorsioni del mercato. Il mercato del lavoro è in questo senso paradigmatico, ma ci sono altri esempi in Italia, quali il mercato degli immobili in affitto ed altro ancora.
L’argomento della riforma del mercato del lavoro si presta purtroppo ad essere fortemente ideologizzato, come le vittime del terrorismo dimostrano.
La proposta di Ichino è tuttavia innovativa ed interessante e potrebbe contribuire a risolvere il problema dell’ingessamento, trasformando il lavoro da realmente precario ad autenticamente flessibile. Garantendo cioè alle persone che (per un motivo o per l’altro) si trovino nella condizione di cercare un lavoro di trovarlo con maggiore facilità.
Scritto il 17-7-2009 alle ore 10:20
Non credo che la riforma Ichino, o anche quella Boeri/Garibaldi, rappresentino la fine delle tutele ex art. 18 della legge 300/70. Direi che le tutele dirette ed indirette (il controbilanciamento implicito dei rapporti di forza impresa-lavoratori) della disciplina sui licenziamenti, da elementi principali (seppur non unici) di stabilità, divengono -(ex equo) con altri strumenti di garanzia dell’occupazione- elementi di un moderno diritto del lavoro. Nel senso che all’impresa , che già possiede una pletora di strumenti per aggirare le tutele più stringenti (ma che poi ricorre in gran parte all’impiego subordinato di manodopera perchè questo è ovviamente un vantaggio anche per la sua produttività, come dimostra la composizione del mercato del lavoro fornita dall’Istat) è oggi “ri-chiesto” un nuovo patto di responsabilità – cioè prendere in carico l’outplacement del lavoratore licenziato. A “patto” che i lavoratori (rectius: sindacati) siano favorevoli a modulare/graduare le proprie tutele. Ben altre sono le ricette per sconfiggere la precarietà, ma questa (con i dovuti aggiustamenti) sembra essere la ricetta opportuna per far vincere la “buona flessibilità”.
Scritto il 23-7-2009 alle ore 17:21
Credo sia giusto intervenire per riequilibrare il gioco di forza dell’attuale mercato di lavoro, ma a mio avviso bisognerebbe passare anche dalla modifica della procedura disciplinare ex art. 7 St. lav., che spesso obbliga le aziende a percorsi troppo lunghi per arrivare a licenziamenti disciplinari seppur sorretti da motivazioni giuste e, talvolta, trovandosi di fronte all’accoglimento di una impugnazione basata su errori formali o procedurali piuttosto che sul merito.
Tutto ciò fermo restando che il licenziamento per motivi illegittimi va punito con giusta tutela del lavoratore.
Comunque il libero recesso con largo preavviso è una idea di Ichino che da tempo pronuncia, forse in versioni differenti, che condivido. Attenzione solamente che non porti uno squilibrio in senso contrario, ma è anche vero che se un datore di lavoro non va più d’accordo con un lavoratore, perché mantere questo “matrimonio” ad oltranza? Diamogli delle garanzie, economiche e di ricollocamento, ma permettiamo al datore di lavoro di “divorziare” senza troppi problemi legali (idem nel momento in cui si debba passare per le onerose procedure disciplinari).
Ho qualche perplessità sull’operato delle Agenzie di ricollocamento, considerando come funzionano oggi le attuali Agenzie per il lavoro… ma mi fermo qui.
Saluti,
LL