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Il Blog di Francesco Bacchini

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Postilla » Lavoro » Il Blog di Francesco Bacchini » Rapporto di lavoro » Sul Precariato e sull’etica dell’occupabilità personale (ovvero sulla responsabilità personale per la propria carriera professionale)

17 giugno 2009

Sul Precariato e sull’etica dell’occupabilità personale (ovvero sulla responsabilità personale per la propria carriera professionale)

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Ormai quasi ogni giorno, ostinatamente, la politica (largamente intesa), i media, finanche la letteratura e il cinema, si occupano, non senza ipocrisia, della precarietà del lavoro e dei lavoratori precari.

Argomento gettonatissimo, quello del precariato, assurto a icona della polarizzazione strumentale della materia lavoristica, generatasi a seguito della c.d. “Riforma Biagi” nel 2003 e, pur tuttavia,  trattato con evidente e voluta approssimazione, non solo dai talk show o dalle trasmissioni di (pseudo) approfondimento politico.

E’ di questi giorni una polemica fra il Presidente del Consiglio e il Governatore della Banca d’Italia sul numero dei precari “al tempo della crisi” e sugli ammortizzatori sociali che a loro non spettano, contribuendo, par di capire, a renderli, se possibile, ancor più effimeri, che la dice lunga sull’approssimazione alla quale poc’anzi si faceva riferimento. Il primo omette distinzioni doverose fra chi, stabile o precario, gli ammortizzatori li ha e chi, invece, stabile o precario, non li ha affatto; il secondo parla di licenziamento anche per i lavoratori parasubordinati (ai quali, essendo lavoratori autonomi e non dipendenti, la disciplina sul licenziamento, individuale o collettivo, ovviamente, non si applica).

Ma al di là delle cifre (due milioni nello scenario peggiore o un milione e mezzo in quello migliore) dei lavoratori che hanno o non hanno la protezione rappresentata: o dall’indennità di disoccupazione o dall’indennità prevista per la CIGO o la CIGS o, ancora, dall’indennità di mobilità (ordinaria e a requisiti ridotti), sulle quali la dottrina si affretta a dare ragione al Governatore e torto al Presidente (si vedano, Berton, Richiardi, Sacchi, Quanti sono i lavoratori senza tutele, www.lavoce.info) e della quale non intendiamo (per ora) occuparci, poiché l’approssimazione giuridica continua ad unire impropriamente: flessibilità, precarietà, frammentarietà delle carriere e poiché le tipologie contrattuali di lavoro continuano ad essere sussunte, nell’uno o nell’altro concetto, solo per far tornare i conti che interessa far tornare, vale, forse, la pena di tentare una ragionevole rilettura dell’argomento.

La dimensione del fenomeno della precarietà/flessibilità, che, in assenza di qualsivoglia rigorosa sistematizzazione giuslavoristica, a sentire alcuni è di proporzioni così rilevanti (si è parlato, addirittura, di 3.757.000 di lavoratori precari nel terzo trimestre 2006, si veda a tal proposito, Mandrone, Massarelli, Quanti sono i lavoratori precari, in www.lavoce.info), da essere gravida di pericolose conseguenze (la c.d. “fuga dal diritto del lavoro” subordinato-standard) per il modello stesso di civiltà socio-economica del nostro paese (soprattutto in tempo di crisi), merita, dunque, una seria analisi.

Al di là dei dati disponibili, assai variabili (i lavoratori precari sarebbero stati, restando ai numeri sopra riportati, il 13% circa degli occupati, ma secondo gli ultimi dati istat disponibili, quelli del quarto trimestre 2008, sarebbero 2.255.000 dipendenti ai quali aggiungere un 350-400.000 co.co.co. anche a progetto, escludendo dal novero, in ogni caso, partite iva e associati in partecipazione perché trattasi di lavoratori indipendenti) e del sarcasmo su come vengano rilevati (si veda in tal senso Boeri, La precaria indagine sui precari, www.lavoce.info) e al di là della veridicità o, quanto meno, dell’effettività degli stessi (della quale si può dubitare), l’attuale mercato del lavoro, sconta, senza dubbio, in un immaginario collettivo fuorviato (si veda sul punto la riflessione di Reyneri, Ma le occupazioni stabili stanno proprio scomparendo?, in Osservatorio del lavoro, dicembre 2008), la pretesa sinonimia fra lavoro flessibile e lavoro precario, concretizzantesi, prima ancora che in una inaccettabile promiscuità di tipologie contrattuali molto diverse fra di loro (si pone acutamente il problema della definizione e della distinzione fra lavoro flessibile e precario, ROCELLA, Lavori flessibili o lavori precari?, in Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro, a cura di Mariucci, Bologna, 2006,  p.55-74) ed in una totale assenza di sistematizzazione delle stesse in ragione della loro natura giuridica e funzione economica, nella meccanicistica  e superficiale convinzione che tutti i contratti di lavoro diversi da quello social tipico a durata indeterminata e ad orario pieno, debbano essere eliminati (si veda, ad esempio, MARIUCCI, Introduzione, in Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro, a cura di Mariucci, Bologna, 2006, p. 11-25, secondo il quale  bisogna tornare al posto fisso garantito, stabile, largamente prevalente se non proprio esclusivo).

Eppure, dopo aver sconfessato l’assemblazione del tutto eterogenea ed errata, della categoria del lavoro temporaneo dipendente (e autonomo), per tutti il lavoro precario, nella quale vengono inclusi: il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato anche stagionale ed i rapporti a causa mista retributivo formativa (inevitabilmente caratterizzati dalla durata determinata del percorso di apprendimento professionale e/o scolastico, ma non da un termine in senso tecnico), il lavoro interinale, ovvero somministrato (che, pur essendo temporaneo, ben può essere innestato su di un sottostante contratto di lavoro a tempo indeterminato fra agenzia e prestatore) e quello intermittente e ripartito (che sono, al di la delle flessibilità soggettivo-temporali, naturalmente contratti di lavoro subordinato a tempo interminato) ma anche gli stage ed i tirocini e le pratiche professionali retribuite (che non sono affatto contratti di lavoro e quindi non dovrebbero esprimere giuridicamente occupazione lavorativa, essendo, in tutto e per tutto, soltanto momenti di formazione propedeutici al lavoro) e con essi anche le collaborazioni coordinate e continuative, soprattutto a progetto, le quali, configurando un contratto d’opera, ovvero una forma di lavoro autonomo (e come tale naturalmente temporaneo) non sempre e non in ogni caso esprimono un’occupazione similsubordinata tendenzialmente precaria, ci si accorge che il concetto di lavoro precario, diversamente da quello di lavoro flessibile, manca di oggettività.

Il concetto di flessibilità del lavoro discende, infatti, dalla necessità di adattamento delle forme contrattuali di reperimento della manodopera, alle esigenze della produzione e alle condizioni dei mercati che ne caratterizzano volumi e cicli e, conseguentemente, anche la domanda e l’offerta di lavoro ad essi relativa.

Tale necessità, seppur variabile nel tempo per dimensioni e intensità, è oramai stabile ed è espressa, oggettivamente, da una serie di modalità occupazionali “normali”, manifestazione di un continuum economico-giuridico-organizzativo, difficilmente eliminabile in quanto risulta difficilmente rinunciabile la flessibilità lavorativa che esse garantiscono, oltremodo fondamentale nel moderno mondo del lavoro globalizzato.

Tanto nella sua accezione interna alla subordinazione lavorativa, ovvero interna al contratto di lavoro subordinato, caratterizzata da: temporaneità, riduzione o riallocazione temporale, discontinuità della prestazione di lavoro, che in quella esterna alla subordinazione lavorativa, ovvero esterna al contratto di lavoro subordinato, caratterizzata da: terzietà contrattuale e professionale, temporaneità (o meno) della prestazione, la flessibilità del lavoro trova ragionevole giustificazione nell’esigenza di adattamento e di innovazione dei modelli contrattuali tradizionali di prestazione del lavoro, causalmente discendenti da un sistema economico-produttivo, ormai venuto meno, molto diverso da quello globalizzato dei nostri giorni.

Ne consegue che, sulla carta, nessun contratto di lavoro flessibile è necessariamente, inevitabilmente, di per se stesso automaticamente precario e ciò in quanto la sua giustificazione causale, la sua funzione economico-sociale e, quindi, la sua fattispecie giuridica, consistente nell’adattamento dei contratti di lavoro alla ciclicità, discontinuità, temporaneità dei processi produttivi, esprime un’imprescindibile esigenza di stabile strumento di governo del mercato del lavoro e dell’occupazione e con essi dell’economia del terzo millennio. La consustanzialità di forme flessibili di prestazione lavorativa nel moderno mercato del lavoro e il legittimo e funzionale ricorso ad esse da parte delle imprese, ci consegna una fisiologica domanda di flessibilità, oggettivamente stabile in quanto necessaria; ciò non di meno si può certamente affermare che alcuni modelli contrattuali di flessibilità lavorativa evidenziano, soprattutto in una prospettiva patologica, ovvero di abuso della funzione economico-sociale, della causa, propria del tipo di rapporto, una portata potenzialmente precarizzante. Non è, tuttavia, l’oggettiva, intrinseca natura provvisoria di alcune tipologie contrattuali di prestazione temporanea e flessibile di lavoro a generare la più diffusa precarietà dello stesso, bensì, da una parte, l’uso tendenzialmente distorto che di tale contratto fa il mercato, di solito agendo proprio al fine di eludere la disciplina del lavoro stabile, caratterizzata, come sappiamo, da alte protezioni e alti costi, soprattutto per quel che riguarda il salario minimo garantito dalla contrattazione collettiva nazionale e il costo del lavoro (uno dei più alti in assoluto in Europa),  nonché la rigidità in uscita con i suoi limiti al licenziamento e, dall’altra parte, la dimensione personale, la condizione soggettiva, le caratteristiche professionali dei lavoratori flessibili o temporanei, caratterizzate da debolezza e inadeguatezza nel mercato della conoscenza e dell’alta produttività personale.

Nella struttura causale di alcuni contratti di lavoro, subordinati e non, ovvero nel modello tipico attraverso il quale si esprime la ragione economico-sociale di un contratto di lavoro, è presente, da sempre, anche l’elemento oggettivo della limitatezza temporale, del termine, della determinatezza del lavoro e della sua naturale conclusione, della preventiva decisione circa la cessazione del rapporto stesso per il venir meno di specifiche condizioni o per il venir meno della particolare necessità connessa alla sua stipulazione.

E’ senza dubbio nella concreta temporaneità dell’interesse alla prestazione lavorativa, nella oggettiva determinatezza del lavoro e/o del suo risultato, che finisce per identificarsi l’individuale provvisorietà del lavoro o, se si preferisce, la sua soggettiva precarietà.

Il paradigma della oggettiva provvisorietà del lavoro è data dal modello tipico della prestazione di lavoro autonomo, senza vincolo di subordinazione, ovvero del contratto d’opera, il quale, com’è normale nella disciplina dei contratti (in cui nonostante  la durata esprima l’esecuzione delle prestazioni in un periodo di tempo apprezzabile o la loro ripetizione periodica nel tempo, la regola è la determinatezza o determinabilità della stessa e l’eccezione l’indeterminatezza, si veda ad esempio, in tal senso, il contratto di somministrazione a tempo indeterminato di cui all’art. 1569 c.c.), prescinde dalla durata indeterminata o indefinita e, pur potendo esprimere una persistenza temporale, normalmente, se non proprio istantaneamente, prevede la naturale conclusione a seguito della realizzazione dell’opera o del servizio che ne costituiscono l’oggetto e, proprio in ciò si distingue, in termini di tutela, dalla prestazione di lavoro a progetto (o collaborazione coordinata e continuativa), il quale, pur essendo autonomo, è caratterizzato, oltrechè dal coordinamento della prestazione con l’organizzazione datoriale committente, anche dalla sua continuità, laddove, normalmente, tale caratteristica è assente nel modello contrattuale.

E’ quindi l’elemento soggettivo che, intrinsecamente, consente di modificare l’estrinseca oggettiva natura di contratto a durata, a scadenza determinata o determinabile in relazione al raggiungimento (o meno) del risultato oggetto dell’opera o del servizio e, pertanto, di contratto astrattamente precarizzante, propria di qualsiasi contratto di lavoro autonomo, creando le condizioni in virtù delle quali, in linea di massima, ad ogni contratto d’opera al quale è stata data esecuzione, ne segua un altro senza significative interruzioni nella continuità e stabilità delle stipulazioni e nel percepimento dei corrispettivi economici che esse generano o, per converso, di assecondare, invece, tale tendenza e, quindi, subirla con tutte le conseguenze negative facilmente immaginabili in termini di sostentamento e precarietà dell’esistenza.

E’, del pari, l’elemento soggettivo che, altrettanto intrinsecamente, consente, se non di modificare l’estrinseca oggettiva natura provvisoria, temporanea, precaria, propria di altri contratti di lavoro, quanto meno di determinare una sua evoluzione in senso stabile, da un lato opponendosi ad essa quando la norma lo permetta (si veda, ad esempio, la supina accettazione della successione di più proroghe o di più contratti a tempo determinato, rispetto a quelli consentiti dalla legislazione di riferimento, oggi maggiormente stabilizzante) e dall’altro lato governando la dinamica sostanzialmente provvisoria, transitoria, di alcuni contratti di lavoro, mediante un unitario disegno professionale personale, capace, per certi versi, di “consolidare” la provvisorietà del lavoro, ovvero il precariato, trasformandolo, suo malgrado, in autosicurezza occupazionale, ma, soprattutto, capace di far evolvere il lavoro precario, adattando alle concrete offerte occupazionali la propria professionalità, in lavoro stabile e duraturo. E ciò è quanto mai vero se, come si sostiene, la differenza fra lavoro autonomo e lavoro subordinato nell’economia e nella società della conoscenza e della qualificazione professionale, va sempre più scomparendo (si veda in tal senso, per una  ricostruzione del concetto di lavoro sull’evoluzione del lavoro autonomo, il c.d. lavoro senza aggettivi, la teoria di PEDRAZZOLI, Lavoro sans phrase e ordinamento dei lavori. Ipotesi sul lavoro autonomo, in Riv.It.Dir.Lav., 1998, I, p.49-103, in particolare p. 54-56).

Pur volendo evitare qualsivoglia facile generalizzazione e pur non potendo condividere l’ironica parafrasi di una nota battuta di un film famoso di qualche anno fa, secondo la quale “precario è chi il precario lo fa” (SACCONI, TIRABOSCHI, Un futuro da precari? Il lavoro dei giovani tra rassegnazione e opportunità., Milano, 2006, p. 122), si ritiene, comunque, di dover riaffermare (o, meglio, affermare ex novo), al fine di superare i guasti della precarietà del lavoro, una seria etica dell’occupabilità personale, ovvero della responsabilità personale per la propria carriera professionale, alla quale ciascun cittadino lavoratore dovrebbe essere educato a seguito di qualificati e qualificanti percorsi formativi scolastico/universitari o pratico/addestrativi (on the job) così da risultare ad essa intimamente e profondamente vincolato.

Sebbene vada riconosciuto che alcuni modelli o tipologie di lavoro subordinato, soggettivamente inclini alla provvisorietà e precarietà occupazionale, ai quali sono sottese le ben note e fisiologiche esigenze economiche di flessibilità, possano essere eliminati o ne possa essere radicalmente modificata la struttura causale in ragione della diffusa patologia di cui sono affetti o, più efficacemente, possa venirne soltanto rivista la disciplina operativa al fine di limitarne il ricorso, quali-quantitativo (come nel caso, ad esempio, della ridefinizione e limitazione delle causali previste per la stipulabilità del contratto a tempo determinato o del contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, oppure, nel caso della riduzione della durata massima oggi fissata in 3 anni, anche se comprensiva di proroghe o prosecuzioni o nuove stipulazioni del contratto di lavoro a tempo determinato) o contenerne gli effetti individualmente negativi per i lavoratori con l’estensione di tutele o interventi economico-formativi (si pensi, ad esempio, alla previsione di specifici obblighi formativi di riqualificazione professionale per i lavoratori a tempo determinato, o all’aumento del costo del lavoro a carico del datore che utilizza questi lavoratori, magari collegato, quest’ultimo, a misure premiali o  punitive a seconda che egli mantenga occupata o meno una determinata percentuale di essi alla scadenza del termine e alla cessazione del contratto), si ribadisce con forza la necessità di affermare l’etica della responsabilità personale per la propria carriera professionale, quale elemento soggettivo base per il superamento, naturale e, nel minimo, necessario, della provvisorietà, determinatezza, temporaneità del lavoro.

Occupabilità personale che deve, tuttavia, trovare sponda in politiche proattive di welfare, ovvero in ammortizzatori sociali attivi (servizi pubblici o privati gratuiti di formazione, di job placement, finanziamento di iniziative di auto imprenditorialità, ecc.) e non solo passivi (assegni o salari di disoccupazione).

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  • collaborazioni coordinate continuative, giusta causa, lavoro a progetto, lavoro flessibile, licenziamento, precariato
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